mercoledì 23 dicembre 2015

Dopo qualche settimana di assenza, eccoci nuovamente in compagnia dei nostri vecchietti sempre più agguerriti.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA MEGLIO

Oggi qui nella sala polivalente della casa di riposo ad Runcfrèdd sto raccontando dell’ondata di furti che da qualche mese sta travolgendo Cesena e che, accidenti, ha visto coinvolto anche il sottoscritto a cui dei simpatici soggetti non identificati hanno forzato la portiera della macchina e prelevato dal bagagliaio computer e navigatore.
“Quella roba non la ritroverai mai più!” mi conforta Piero dalla sua postazione accanto alla finestra.
“Proprio così” annuisco sconsolato.
“E quei bastardi la faranno franca come sempre!” si indigna sbattendo il pugno sul tavolino.
“Tanto sono stati quei rumeni e quei marocchini!”, è l’immancabile e dolcissima signora Irma a intervenire.
“Questo non lo so, potrebbe essere stato chiunque” le specifico.
“No no, sono stati loro sono sicura!” alza la voce, “Vengono qua da noi per rubare e uccidere!”.
Valà che se ci fosse stato il Duce!” salta su la signora Mafalda che oggi sfoggia una collana di pietre celesti che ha vinto domenica alla tombola della pro loco.
“Se ci fosse stato il Duce?” domando.
“A questi marocchini li avrebbe riempiti di botte e poi li avrebbe spediti tutti nel loro paese!” si infervora.
“Eh sì” si intromette la signora Irma, “era meglio quando c’era il Duce… adesso non si dorme più sicuri e poi a questa gentaccia non ci fanno niente, il giorno dopo sono già liberi”.
“Una volta rubavano i conigli e i polli, adesso rubano tutto!” rincara la signora Mafalda.
“Altroché Renzo o Berlusconi, il Duce avrebbe già risolto la situazione!” sancisce Piero rifilando un altro pugno sul tavolino.

lunedì 21 dicembre 2015

Eccoci prontissimi con la nostra rubrica del lunedì in compagnia di Agnese, dei suoi ricordi e delle sue paure.

LO PSICOLOGO NON SERVE A NIENTE?

“Sai da piccola qual era la mia più grande paura?” mi chiede Agnese con lo sguardo basso e i capelli a coprirle una parte del viso come un sipario, “Che i miei si lasciassero”.
“Ne hanno mai parlato di lasciarsi?” le domando.
“Certo, quando andavo alle elementari litigavano quasi ogni giorno”.
“Quali erano i motivi?”.
“Mamma diceva che papà andava con le altre donne, anzi, con quelle donnacce”.
“Quindi in casa c’era un clima molto pesante”.
“Proprio così” risponde Agnese che ora alza la testa mostrando due occhi gonfi di lacrime e il trucco lievemente sbaffato, “Allora io dicevo che mi faceva male la pancia così attiravo l’attenzione su di me e smettevano di urlare”.
“E funzionava?”.
Agnese annuisce quindi mi fa con un sorrisetto, “Pensa che quando ero in camera giocavo a che i miei litigavano e papà se ne andava di casa mentre mamma si prendeva cura della sua piccola bambina. Ricordo anche che mamma era una Winx senza una gamba e papà un Power Rangers senza un braccio”.
“La storia però è andata diversamente, i tuoi sono rimasti insieme” le faccio.
“Sì, ma a volte è come se mi sentissi in colpa”.
“Perché Agnese?”.
“Perché forse mamma è rimasta in casa per me e magari se papà se ne fosse andato, sarebbe stata più felice”.
“Secondo te mamma non è felice?”.
“Mamma non è mai stata felice”.
   

lunedì 14 dicembre 2015

Oggi, nella nostra rubrica del lunedì, conosciamo Lena, una bellissima ragazza marocchina alle prese con una crisi d’identità.


LO PSICOLOGO NON SERVE A NIENTE?


Lena è una ragazza marocchina, bellissima. Più che una studentessa sembra una velina: alta, magra, con i capelli neri che le cadono sulle spalle come una nuvola d’inchiostro. Quando cammina per i corridoi della scuola sembra che sfili e sa bene che tutti, nessuno escluso, si girano a guardarla.
Ora è qui allo Sportello, di fronte a me, e la sua espressione può essere descritta con un ossimoro: malinconicamente sorridente.
“In Marocco non vivevo bene” mi dice, “non appartengo più a quel paese, non so a che paese appartengo, non so nemmeno quale sia la mia identità”.
“Mi pare di capire che ti senti come in una terra di mezzo” le faccio.
“Proprio così”, esita un attimo, “se qui mi comporto come marocchina non mi trovo ma se prendo la mentalità italiana poi non sono più accettata dai miei”.
“Tu, Lena, cosa vorresti?” le domando.
“Io per esempio ho tanti sogni, vorrei fare la modella, mi piace stare al centro dell’attenzione, essere fotografata” sorride un po’ imbarazzata, “ma i miei non lo accetterebbero perché vogliono che io mi comporti da Mussulmana”.
“Cosa succederebbe se tu seguissi i tuoi sogni?”.
“Perderei il rapporto con i miei e soprattutto con mio padre” si commuove, “io vivo per rendere fiero mio padre… Eppure… ”.
“Eppure?”.
“Eppure non voglio fare la fine delle donne della mia famiglia”.
“Cioè?”.
“Sono tutte insoddisfatte e io so bene che rimpiangono il loro passato per non aver fatto quello che desideravano. E poi io non voglio mettermi il velo”.
“I tuoi vorrebbero che lo portassi?”.
“Sì, ma non è che se lo porti sei migliore. Te lo devi sentire e io ora non lo sento. Quando sono tornata in Marocco tutte avevano il velo e io mi sentivo emarginata, così ho pensato di metterlo anch’io ma poi una volta tornata in Italia ho cambiato idea”.
Rimaniamo un attimo in silenzio poi mi fa, “Sai che parlando ad alta voce ho capito una cosa?”.
“Quale?”.
“Non voglio essere marocchina”.


lunedì 7 dicembre 2015

Dopo una settimana di silenzio forzato eccomi di nuovo prontissimo con la rubrica del lunedì. Oggi siamo in compagnia di Federico e di un gruppo di bulli.


LO PSICOLOGO NON SERVE A NIENTE?


Se non fosse per quella striscia di baffetti neri e incustoditi Federico dimostrerebbe meno dei suoi quattordici anni. Ma i marchi di fabbrica che me lo rendono buffo e tenerissimo allo stesso tempo sono il maglione a rombi, l’occhialino tondo e i capelli schiacciati sulla fronte alla John Lennon.
Un ragazzino vintage lo definirei.
“Mi sono successi dei fatti spiacevoli in autobus” sospira, “da parte di certe persone che conosco e che pensavo amiche”.
“Dimmi pure” annuisco.
“C’è un gruppo di ragazzi della mia zona che mi ha preso di mira. Hanno cominciato a nascondermi lo zaino sotto i seggiolini, mi rubano la merenda e l’altro giorno mi sono spariti cinque euro” e diventa rosso quasi come se si vergognasse.
“Accidenti, è un fatto grave” gli dico.
“Più vedono che mi arrabbio e che come uno scemo mi metto a cercare lo zaino per tutto l’autobus, più continuano… per non parlare delle prese in giro”.
Deve costargli un grande sacrificio rivelarmi questi avvenimenti perché ha la bocca impastata e gli trema la voce.
“Che tipo di prese in giro?” domando.
“Bé mi dicono che sono uno sfigato, che ho la forfora e che mi vesto alla caritas” sospira.
“E tu cosa rispondi?”.
“Un giorno mi sono messo a piangere e loro hanno cominciato a dirmi, povera stella dai vai a piangere da mammina… da un po’ invece cerco di fare finta di niente magari se la smettono”.
“Ne hai parlato con qualcuno?”.
Federico abbassa lo sguardo e scuote la testa, “No, mi vergogno, magari se lo dico ai miei loro si attivano, magari li denunciano e quelli si vendicano su di me. E poi…” sospira ancora.
“E poi?” gli faccio eco.
“E poi forse è vero che sono uno sfigato, dai guardami, sono un sempliciotto, un campagnolo, le ragazze non mi guardano nemmeno per sbaglio e sono pure timido e magari anche un po’ troppo permaloso”.
“Federico” e divento molto serio, “guardami negli occhi. Tu non sei assolutamente sfigato, anzi, sei sensibile, educato ed è un piacere parlare con te”.
Lui mi guarda come a dire, Davvero?.
“E non devi assolutamente vergognarti di nulla” continuo, “anzi devi camminare a testa alta. Hai fatto benissimo a venire da me e d’ora in poi ogni volta che succede un fatto del genere tu ne parli con i tuoi, con i prof o ritorni qui allo Sportello. Promesso?”.
“Promesso” e gli scappa un sorriso, poi riprende, “Lo sai che mi ha fatto bene parlarne, è come se quel groppo che avevo qui nel petto si fosse sciolto e ho anche meno paura adesso”.
Mentre Federico si alza e mi stringe la mano gli dico, “Bravo, sono contento che ti sia fidato di me”.